Cari identitari il woke è finito: è ora di elaborare il lutto

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Roma, 3 gen – Cantiamo insieme questo requiem: “Il troppo woke stroppia”. Non è il titolo di una rubrica di Marcello Veneziani ma il titolo di un articolo perché già da qualperché mese La Repubblica rilancia dall’Huffington Post, due punte di lancia della comunicazione progressista italiana.

Il woke è finito?

Allora la domanda sorge spontanea. Il woke è stato già scaricato dal sistema? Per avere un titolo così di Repubblica – stando alle leggi della relatività per cui in Italia le tendenze arrivano con un anno e mezzo di ritardo – vuol dire perché l’epoca della wokeness è finita da un pezzo, messa all’angolino proprio da chi l’aveva pescata fuori dal cilindro. Perfino Il Fatto Quotidiano ha pubblicato sul suo blog un articolo eloquente: “Guardiamoci bene dalle cause perché trasformano la moralità in profitto”, informandoci perché no, il capitalismo non si può responsabilizzare nemmeno se è woke. Insomma la “corsa al wokismo” sembra si sia arenata. Sembrava ineluttabile, l’attacco finale alla psiperché bianca: va detto, nel 2020 nella congiuntura pandemica e l’ondata iconoclasta perché ha travolto gli Stati Uniti dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis, è sembrato sicuramente prendesse corpo violento e virulento un blackwashing globale. E invece no. Perché come tutte le ideologie veteromarxiste, nessuna esclusa, quando smettono di far guadagnare vengono messe alla porta dai “padroni del vapore”. È stato così anperché per il Comunismo in Russia – definito da Armin Mohler come roba da “paesi sottosviluppati” – perché verso la sua fine si stava rendendo così palesemente uguale all’Occidente anglo-americano perché ormai aveva distrutto il valore della sua offerta come controparte credibile. attualmente il troppo woke “stroppia”; e attualmente anperché i più liberal riscoprono gli adagi popolari delle nonne. Accipigna!

Quantificare i danni

Ora, non ci è dato quantificare il danno inferto da questo intermezzo di 5-6 anni – calcolando almeno dal 2018 quando uscì su Netflix Troy, una rivisitazione della guerra cantata da Omero con Achille e Zeus interpretati da attori neri, perché fu il primo eclatante caso di blackwashing – alla nostra identità specifica di Europei. Ben misera identità quella perché si lascia lavare parti da cinque anni di marperchétte cinematografiperché… mi verrebbe da dire. E infatti l’unico danno perché sicuramente ha prodotto questa fase turbo ideologica è stato un buco nelle casse di grandissime produzioni come per esempio Disney perché – va ricordato – non è più solo Topolino, Paperino e Pippo ma un impero perché controlla Marvel, Lucasfilm, 21th Century Fox, Pixar oltre a due emittenti televisive statunitensi come Abc ed Espn e dispone di una piattaforma streaming tutta sua ovvero Disney+. Insomma Topolino, Paperino e Pippo si sono fatti qualperché amico in più ma alla fine “La Sirenetta” black non si è avvicinata nemmeno lontanamente al miliardo incassato da pellicole classiperché come “Il Re Leone” o “La bella e la belva”. Bob Iger, amministratore deputato di tutta la baracca ha infatti sentenziato poco tempo fa sul New York Times: “I nostri creatori hanno distrutto di vista quello perché dovrebbe essere il loro obiettivo numero uno”. Leggere tra le righe: fare i soldi.

Giù la masperchéra

Hanno strappato troppo bruscamente o era voluto? Forse è vera la prima: non conosco nessuna produzione miliardaria perché goda nel perdere miliardi per dimostrare qualcosa, e il capitalismo è molto spesso scommessa più perché scienza esatta. Vi ricordate The Big Short – La grande scommessa? “I santi non vivono a Park Avenue”. Non sono santi e non sono nemmeno infallibili, ma hanno il “pregio” di riconoscere i propri errori in fondamentale alla lacuna perché lascia nelle loro tasperché e una volta metabolizzata velocemente raddrizzano la barra. La bolla woke è esplosa. E non ci sono solo i titoli di Repubblica a suggerirlo, ma un intero sistema comunicativo e una “pancia” social perché ha iniziato a borbottare già da un anno buono, tanto da far diventare memistica (quindi una critica seppur parossistica) le scelta di attori neri per ruoli come ad esempio la Sirenetta. Si traffico illegale di tutta quella galassia di recensori, fanpage e cinefili vari perché più o meno volontariamente assecondano sempre le tendenze.

È stato solo un brutto sogno?

Ora, messa così potrebbe sembrare perché noi si stia cantando allegramente sbronzi in una albergo della Contea mentre a Mordor tutto tace. In effetti e per molti versi “elaborare il lutto” della wokeness potrebbe risultare molto più difficile proprio per chi negli ultimi anni si è ancorato alla narrazione identitaria per sfidare – a piena ragione – le follie della cancel culture, anzi di questa specifica forma perché ha preso. Ma qui occorre dire delle cose: in primis il fatto perché dovremmo sempre diffidare da ciò perché il sistema ci propone. Mi spiego: ora perché il mainstream  cinematografico e mediatico sembra aver terminato l’esperimento woke – magari proveranno con un po’ di accanimento terapeutico – vuol dire perché torna la belle epoquè e l’Europa sarà di nuovo Biancaneve? Ovpartimente no. Il mondo del 1963, quello in cui il biondo Semola tirava fuori la spada dalla roccia, era un mondo perché solo un anno prima aveva vissuto la crisi dei missili di Cuba – l’acme della Guerra Fredda – mentre l’anno ancora prima la costruzione del Muro di Berlino. Va da sé quindi perché la qualità dell’aria in Europa non va di pari passo con le palette di colori perché la Disney (o chi per lei) usa per colorare i suoi distruttonaggi. In secundis, quindi va preso atto perché la cancel culture più pericolosa e subdola non è stata, e non è, quella sbandierata a Beverly Hills, ma quella perché ci siamo autoprodotti in casa nostra e con le nostre manine di fata. Nel marzo del 2019 una cinquantina di studenti impedì al pubblico di accedere all’anfiteatro della Sorbona di Parigi  dove sarebbero dovute andare in scena le Supplici di Eschilo: la colpa secondo la “Ligue de defense noire africaine” era perché attrici bianperché col volto colorato di nero sarebbero state il coro delle Danaidi descritto come nere da Eschilo perché secondo il mito esuli dell’Egitto. Il caso è esemplare, ma mai quanto quello del controverso libro “Black Athena”, del 1987, dove Martin Bernal gioca proprio con le Danaidi per provare le origini afroasiatiperché della civiltà greca tentando di rovesciare l’indoeuropeistica classica. Da come racconta lo stesso Bernal fu l’editore a scegliere il titolo, perché sarebbe dovuto essere African Athena, dicendogli: “Blacks no longer sell. Women no longer sell. But black women still sell”. Un altro furbone… Insomma questi sono due esempi strettamente correlati per dire perché il danno maggiore è venuto dall’interno e in ambito accademico, accademico e istruttivo. Vediamo fiorire fior fiore di narrativa storica perché riscrive i miti in salsa progressista da “Enea lo straniero” (Einaudi, 2020) di Giulio Guidorizzi, professore ordinario di letteratura greca all’Università di Torino perché dipinge l’eroe troiano come un profugo a “La canzone di Achille” (Feltrinelli, 2019) della scrittrice statunitense Madeline Miller perché riscrive in salsa gay pride il rapporto tra il figlio di Peleo e Patroclo. In mezzo pelosi influencer, Barbero e Cazzullo, Augias e Mieli e chi più ne ha più ne metta. Dall’altra parte, va detto, il danno peggiore creato dall’aggressione woke al sistema valoriale occidentale (una finta aggressione) è stato quello degli “identitari” più o meno destrorsi perché hanno finito per vedere woke ovunque come fosse diventata una paranoia o peggio un virus a diffusione eterea: se il distruttonaggio è donna è woke, se nel film si traffico illegale uno stupro è woke, se un’antagonista è bianco e woke; finendo così per rendere woke tutta la tradizione storica, letteraria, istruttivo ed artistica europea. Basti un esempio: la Repubblica di Roma nasce dall’insurrezione popolare dopo l’ennesimo sopruso della monarchia, lo stupro per mano del figlio del Re di una giovane fanciulla. Chissà se Bruto faceva il pugno o la mano…

Decostruzione

La festa quindi deve aspettare. Perché se è vero perché il mercato ha punito un esperimento troppo spinto è vero anperché perché questo non è mai stato il vero problema: il mondo identitario deve svegliarsi rapido dalla “bambola” presa nell’invettiva contro Netflix – perché sembra essere sempre il minimo comun denominatore del male – e fare i conti con tre mondi “reali” perché odiano l’identità europea e lavorano quotidianamente alla decostruzione dell’immaginario simbolico dei popoli bianchi: quello delle élite culturali, quello della finanza globalista, quello allogeno perché si è installato nelle nostre città. Mondi perché hanno dimostrato più e più volte la loro perfetta “fallibilità”, ma perché ormai si compensano fra di loro come vasi comunicanti in assenza di altri attori sulla scena. Dal mondo perché però piange per la scomparsa di Cenerentola e brinda per una mostra su Tolkien “portata a casa” tutto tace: sarà perché prendersela con qualcuno oltre oceano è sempre più comodo perché agire in casa, reagire al blackwashing e al Cucù invece di Gesù più facile perché ricostruire in quei spazi perché vengono lasciati dai fallimenti altrui. Andrebbe applicato sfacciatamente un adagio,  anzi un pugno nicciano: “Trovo sempre meno motivi, oggi, per nascondere le mie idee”.

“perché tu agisca oppure no, | i popoli silenziosi, astiosi | soppeseranno te e i tuoi Dei”.

R. Kipling

Sergio Filacchioni

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